Spesso si sente dire “volere è potere”, “se vuoi davvero fare una cosa, la fai”.
Vero, ma fino a un certo punto e in determinate condizioni.
Quando questa cosa viene detta a qualcuno che non riesce, nonostante i tentativi, a modificare un suo comportamento, o a sganciarsi da una relazione che genera sofferenza, è come se in qualche modo gli si stesse dando la colpa della sofferenza che prova, come se lo stesse, appunto, scegliendo consapevolmente.
Sapere di avere una responsabilità rispetto a ciò che ci accade, è utile, perché ci fa sentire meno impotenti, ci fa rendere conto che “possiamo fare delle scelte”, è il primo passo verso il cambiamento.
Ma se non ci riusciamo, è davvero solo questione di non volerlo? O ci sono anche altri fattori in gioco?
Spesso, questi fattori, si chiamano difese. Mi spiego, a volte, date le esperienze (a volte traumatiche) che abbiamo attraversato, il nostro sistema ha imparato alcune cose, ad esempio:
- di “meritare certe cose”
- di essere impotente
- di non avere il controllo e che il mondo è imprevedibile
- che è meglio non crearsi aspettative.
Date certe convinzioni implicite del sistema, è molto difficile che la persona si senta di fare dei cambiamenti, anche perché teme solo che le cose possano peggiorare.
Cosa fare quindi? Piuttosto che tentare di persuadere la persona a ignorare queste difese, queste vanno accolte, comprese all’interno delle situazioni in cui si sono create per proteggerci, e cooptate nel lavoro terapeutico, perché possono diventare degli alleati piuttosto che dei nemici.
È alla luce di queste considerazioni che è possibile comprendere comportamenti di evitamento, di fuga, anche in terapia: se un paziente non riesce a partecipare ai colloqui, va capito il come mai. La motivazione in psicoterapia spesso non è una premessa, ma un obiettivo da raggiugere: se una persona desidera effettuare un lavoro su di sé ma il suo sistema ha imparato che nella vita niente cambia, sarà per lui difficile usufruirne, perché ci sono due forze uguali e contrarie che vanno in direzioni diverse.
I sintomi, per quanto dolorosi e di non facile gestione e tollerabilità, sono la manifestazione sia di un grande affaticamento del sistema sia di un tentativo di fronteggiare i nuovi eventi, segnalano che l’equilibrio precedente non è più funzionale, ne va trovato uno nuovo. È come la spia degli pneumatici in macchina: il problema non è la spia, non basta spegnerla, il problema è la gomma, ciò che il sintomo sottende.
Se un paziente compie abbuffate, o non mangia, o compie gesti autolesivi, o è ritirato socialmente, o lavora 20 ore al giorno, o inanella relazioni delle quali non è soddisfatto, è perché sta trovando un modo (non funzionale) per stare meglio, non lo fa “per autosabotarsi”, né allo scopo di “manipolare gli altri”.
Queste sono le premesse con cui lavoro in terapia con i miei pazienti.