Ragionando con Chiara Monateri di Radio Deejay: https://www.deejay.it/articoli/il-narcisismo-non-e-dei-vanitosi-ha-le-sue-radici-nellinsicurezza/
Alcune premesse.
La prima: in psicologia, non si parla di narcisista ma di persona con disturbo narcisistico di personalità (DNP): è importante questa dizione, distingue la persona dalla sofferenza che porta. Una persona è molto più dei sintomi che esperisce, e non può essere definita da essi. Ci sono stati anni decenni di battaglie per arrivare a questa conquista, rendiamo merito a chi le ha combatutte e a coloro che lottano con la sofferenza psicologica.
Seconda: tutti abbiamo delle caratteristiche psicologiche, che variano per intensità. Tratti narcisistici possono essere presenti in molti di noi senza che questo configuri un disturbo, che per essere considerato tale, deve anche arrecare una compromissione nei diversi ambiti di vita di un soggetto e una sofferenza per chi lo manifesta o per chi ci è accanto.
Terza: carismaticità, assertività, sicurezza in sé stessi e fascino possono essere ritenuti aspetti narcisistici “sani”.
Quarta: spesso abbiamo in mente la persona con DNP come grandiosa, piena di sé, arrogante. Questo pattern, più conosciuto, fa riferimento al DNP overt. C’è però anche un’altra tipologia di DNP, definita covert: queste persone appaiono inibite, ritirate, preoccupate del rifiuto e delle critiche. Come nel DNP overt, fanno fatica ad empatizzare con l’altro, appaiono egoriferite, desiderano fortemente essere riconosciute per le loro qualità speciali e, quando questo non avviene, provano profonda rabbia.
(Fine momento psicoeducativo)
Sebbene nell’immaginario, e anche nell’esperienza comune, la persona con un DNP, possa essere vista come qualcuno che profondamente ama sé stesso, la letteratura dice altro.
Più che amati, non amabili.
È da almeno un secolo che gli studiosi si interrogano sull’origine delle modalità peculiari di questo disturbo e, sebbene in psicologia difficilmente vi sia un consenso unanime (tanto più su modelli, eziopatogenesi e trattamento), vi sono delle teorie maggiormente accreditate.
Le persone con NPD spesso crescono con delle figure di riferimento che percepiscono come poco accoglienti e disponibili, spesso critiche, quando non umilianti. Questa percezione rimanda loro un’immagine negativa, di non essere apprezzati, amabili e adeguati. Il tentativo di adattamento che viene quindi più facilmente messo in atto, consiste nell’inibire le richieste di cura, attenzione e affetto, imparando a contare principalmente su sé stessi e mostrando all’esterno le caratteristiche che l’ambiente rinforza e valida.
A lungo andare, questo implica un dis-allenamento della funzione dell’empatia, in quanto, se non devo cogliere i sentimenti negativi dell’altro, per proteggermi, perché mi fanno soffrire, verrà inibita in generale la sintonizzazione sul mondo emotivo esterno (non può esserci un’inibizione “circoscritta”, solo del negativo).
La persona con un NPD investirà quindi molto su sé stesso e potrà esperire disagio in una situazione intima con l’altro, perché precocemente è stata vissuta come spiacevole, pericolosa e frustrante.
È molto difficile, secondo me, per gli addetti ai lavori, parlare in modo leggero di questo disturbo, così ampiamente trattato in articoli divulgativi e piattaforme social, spesso in maniera critica e aggressiva, tanto quanto gli stili propri di questa categoria diagnostica. A mio parere, andrebbe invece usata cautela e comprensione nell’approcciarvisi. Questo non andrebbe però confuso con il giustificare e cercare di “salvare” le persone con questo disturbo. Le persone con DNP difficilmente richiedono un trattamento, spesso accade se c’è un esordio depressivo o se il partner lo richiede fermamente. Ma nessuno può essere “salvato” o può fare un lavoro su sé stesso se non è davvero lui a volerci e poterci provare.
La psicoterapia può essere un percorso bellissimo, ma estremamente difficile, che ci mette a confronto con i nostri più temibili draghi, è quindi “La” scelta personale di cambiamento.